Il movimento e la tensione

Elena Pontiggia

Il movimento e la tensione (scarica il pdf Ferdinando Chevrier Il movimento e la tensione)

Pittore del movimento e delle sue manifestazioni: così si potrebbe definire Ferdinando Chevrier. Nei suoi quadri la Dinamicità – per citare un suo titolo – è un elemento costante: sia quando, nelle opere giovanili figurative e neocubiste, dipinge oggetti in precario equilibrio che incrinano l’ordine della composizione; sia quando, nelle opere astratte dei primi anni cinquanta (l’epoca, come vedremo, dell’adesione al M.A.C.), costruisce strutture in tensione; sia quando, nel periodo informale, si ispira al mondo organico e cellulare; sia infine quando, negli ultimi decenni, crea una volumetria rotante che sembra voler uscire dal quadro andando verso l’infinito.

E’ un movimento, quello di Chevrier, che può apparire oggettivo o interiore, ma è sempre segnato da una strana regolarità. Anche quando sembra un’esplosione vitalistica, ha qualcosa di composto: segue una traiettoria, si incunea in una intelaiatura, si incanala lungo una direttrice. Non è un moto irrazionale, insomma, ma sembra obbedire a un ordine e a una legge.

“Dove c’è il movimento c’è la vita. Dove non c’è, c’è la morte” mi aveva detto una volta che ero andata a trovarlo nel suo studio in via del Progresso 20, a Milano. Era il 1985 e mi accompagnava il comune amico Miro Cusumano, che aveva lo studio nella stessa casa (e che ci avrebbe lasciati solo due anni dopo, a quarantanove anni).

“Pensa al mare che non sta mai fermo” aveva aggiunto Chevrier, che non dimenticava mai le sue origini livornesi, anche se all’epoca viveva a Milano ormai da undici anni. Quell’interesse per il dinamismo poteva sembrare di ascendenza futurista, e, in effetti, l’artista, che per età non aveva potuto appartenere al gruppo di Marinetti, si era appassionato a tele e pennelli vedendo a tredici anni, nel 1933, una mostra di aeropittura alla Bottega d’Arte di Livorno. Al futurismo si era riallacciato poi, per molti aspetti, nel dopoguerra. Aveva riflettuto sulle opere di Boccioni, Carrà, Balla, ma soprattutto ne aveva condiviso la concezione filosofica (“Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido” si legge nel Manifesto futurista), anche se l’aveva tradotta in forme più mentali e segrete. Il movimento che Chevrier dipinge, però, non è legato alla macchina. E’ una tensione espressa dall’inclinarsi, torcersi, ruotare dei segni, che esplora il nucleo originario delle forme e indaga anche il regno della natura e delle cellule. Il movimento riacquista così la sua dimensione inafferrabile. Come qualcosa che, fuggendo, ci sfugge.

GLI ANNI DEL DOPOGUERRA E DEL POSTCUBISMO (1947-1949)

1947_Natura_morta

1947 Natura morta

Se si osservano le opere di Chevrier nell’immediato dopoguerra, soprattutto le figure e le nature morte eseguite tra il 1946 e il 1949, subito prima dell’adesione al M.A.C., non è difficile avvertire quel senso del dinamismo cui abbiamo accennato e che è la sua più intensa caratteristica espressiva. Certo, è un dinamismo sottile, non esibito, affidato soprattutto all’insistenza delle diagonali. In Natura morta, 1947, per esempio, la fruttiera è inaspettatamente obliqua.

Già l’espressionismo, a cominciare da Van Gogh, aveva dipinto nature morte dai piani pericolanti, ma Chevrier non ha in mente di costruire un mondo franante. La bottiglia, il vaso, la mela sono solidi e fermi, il tavolino non ha nessuna intenzione di crollare, la stessa fruttiera è saldamente ancorata al piano d’appoggio. Eppure la linea obliqua governa tutta la composizione: anche lo sgabello poggia su gambe diagonali, e triangolari sono – innaturalmente – le ombre.


1949 Natura morta

1949 Natura morta

Analogamente le scomposizioni neocubiste, a cui Chevrier approda intorno al 1949, si impostano in prevalenza su cunei, triangoli, tagli sghembi e trasversali. In Natura morta, dello stesso 1949, gli oggetti sono quasi irriconoscibili: il quadro si articola in una serie di linee oblique che insidiano la placida orizzontalità della composizione e trasformano gli elementi potenzialmente statici in una inquieta trama geometrica.

Apriamo una parentesi. E’ noto che la diagonale è la linea che rappresenta maggiormente il movimento. Una figura che cammina o corre disegna nello spazio un segmento inclinato. La parola stessa “diagonale” in ebraico e nell’arabo medioevale è espressa dal termine “quir”, che rimanda a “cadere” e a “piovere”, perché allude alla pioggia che cade sghemba. Sappiamo poi che quando Van Doesburg, nel 1925, introduce nelle sue composizioni la linea obliqua, provoca una frattura insanabile con Mondrian, che nei quadri ammetteva solo verticali e orizzontali. Non era una questione di forma (in arte la forma non è mai un problema formale): il primo voleva dipingere il divenire, il secondo voleva dipingere l’eterno. La predilezione per la diagonale, dunque, non è una semplice scelta stilistica, ma esprime visivamente un ventaglio di significati che possono sfuggire alla nostra sensibilità, ma restano cruciali in una ricerca espressiva.

Torniamo a Chevrier. Da dove gli derivava quell’amore per il dinamismo e, appunto, per le direttrici diagonali della composizione? In gran parte, lo abbiamo detto, dal movimento che aveva posto il movimento al centro della propria poetica, vale a dire il futurismo. L’artista livornese aveva visto nel 1933 la “Mostra Nazionale d’Arte Futurista”, con opere di Fillia, Dottori, Prampolini, Tato, Osvaldo Peruzzi. Ma non solo. Anche il clima postmacchiaiolo, che allora dominava ancora l’ambiente artistico cittadino, poteva offrirgli qualche suggestione.

Chevrier apprende i primi rudimenti della pittura da un tardivo seguace di Fattori, Renuccio Renucci (Livorno 1880-1947), che conosce nel 1936. Renucci, che era allora nel pieno della maturità e godeva di una certa fama, amava dipingere barche e marine impostate su un gioco di diagonali. Nei suoi paesaggi l’azzurro di acque e cieli era spesso interrotto dalla direttrice obliqua di un albero tubolare, di una vela, di una randa, di un’inferitura, oppure dai lunghi remi sghembi di un becolino, dalle catene altrettanto sghembe di un peschereccio, dall’intrecciarsi trasversale delle corde. Insomma, pur nell’ambito di un paesaggismo tardoromantico e non di rado sentimentale, nei suoi esiti migliori ricercava l’essenzialità della composizione e ragionava sulla nitidezza della diagonale che si stagliava nello spazio-colore del paesaggio.

Al di là degli insegnamenti di Renucci, comunque, Chevrier torna a meditare su Boccioni e compagni quando, nel dopoguerra, consulta avidamente le pagine di “Lacerba”, che trova alla Libreria Vallerini di Pisa. Il suo non era un interesse scontato. Il futurismo era ancora misconosciuto, non solo – come ci si potrebbe aspettare – dai critici tradizionalisti, ma anche da quelli d’avanguardia, che lo accusavano di “ristrettezza ideologica” e di “cattivo gusto” cromatico oltre che, si intende, di fascismo. Chevrier invece aveva capito che Boccioni aveva “cambiato rotta alla placida e modesta crociera dell’arte italiana di allora”, per dirla con Sironi.

Carlo Carrà Complementarismo delle forme di una figura nuda

C.Carrà Complementarismo delle forme di una figura nuda

Disegno

Archipenko Disegno

Se guardiamo le pagine di “Lacerba”, ci imbattiamo in opere come “Dinamica di un ciclista” di Boccioni, “Complementarismo delle forme di una figura nuda” di Carrà o i “Disegni” di Archipenko, impostati tutti su un intreccio di ellissi spezzate e di diagonali, che hanno qualche punto di contatto con esiti come “Capocoda verticale” di Chevrier (1949) e altre sue opere del periodo.

Ancora su “Lacerba”, poi, Boccioni scriveva che il dinamismo è la “sola via futura e definitiva dell’arte”: un’affermazione intransigente, radicale, che avrebbe potuto impressionare il giovane livornese.[1]


Capocoda Verticale

Capocoda Verticale 1949

M.Nigro Costruzione 1949

M.Nigro Costruzione 1949

Intanto, a partire dal 1947, l’artista si avvicina al neocubismo e, alla fine dello stesso anno, conosce Gianni Bertini e Mario Nigro, anch’essi interessati alle scomposizioni e alle dure geometrie della pittura picassiana. La ricerca di Nigro, in particolare, ha una consonanza col lavoro di Chevrier, come si vede per esempio in Costruzione” del primo e nel già citato Capocoda Verticale” del secondo, entrambi del 1949. Sempre nel 1949 Nigro e Bertini, che ormai si è trasferito a Milano, hanno una personale alla Libreria Salto, i locali in via Santo Spirito 14, nel cuore della città, che sono il centro espositivo del M.A.C.. Anche per Chevrier sta per iniziare l’avventura del concretismo.

GLI ANNI DEL M.A.C. (1950-1955)

Il M.A.C. nasce a Milano nel 1948, fondato da Soldati, Munari, Monnet e Dorfles. Il nome era l’abbreviazione di “Movimento Arte Concreta”, dove l’aggettivo era un sinonimo, già coniato da Kandinsky, di astrattismo. Indicava un’arte non imitativa, volta non a riprodurre la realtà ma a concretizzare, appunto, una forma inventata dall’artista.

Oggi, in tempi in cui tutte le ideologie sono crollate, anche quelle artistiche (e in cui si pensa, a ragione, che ogni tendenza e ogni linguaggio possano aver valore, purché creino un’opera d’arte), è difficile immedesimarsi nel clima di quegli anni in cui l’astrattismo era una fede, una bandiera, un assoluto. La contrapposizione fra astrazione e figurazione – in particolare fra astrazione e realismo sociale – era totale. Dipingere un quadrato sembrava più moderno che dipingere un fiore, così come, dall’altra parte della barricata, dipingere una mondina pareva più rivoluzionario che dipingere un quadrato. Eppure, propiziati forse da quel contrasto e da quella fede dogmatica, nacquero in quel periodo (non solo nel M.A.C.) alcuni degli esiti più significativi dell’astrattismo geometrico in Italia.

Chevrier aderisce al concretismo nel 1950, sull’esempio di Bertini e Nigro.  Già in febbraio, quando espone con loro alla Sala delle Stagioni a Pisa, la presentazione di Gillo Dorfles contrappone al neocubismo, che manteneva ancora tracce dell’oggetto, il concretismo, a cui evidentemente i tre artisti erano approdati e che espelleva dall’opera qualsiasi riferimento alla realtà.

Il consenso di Dorfles non è senza conseguenze. Qualche mese dopo, in novembre, il M.A.C. invita Chevrier a esporre, anche se per ragioni contingenti la sua mostra alla Libreria Salto si aprirà solo nel maggio 1951. A presentarla è Gianni Bertini che sottolinea la “realtà interiore” espressa da Chevrier e la “struttura” della sua pittura.[2]

In effetti dal 1951 al 1954 l’artista imposta la composizione soprattutto su un intreccio di linee dall’andamento prevalentemente seriale, dove la singola forma si ripete potenzialmente all’infinito: una trama di geometrie che sembrano rappresentare lo scheletro, l’ossatura, l’armatura architettonica delle cose.

1952 Astrazione

1952 Astrazione

La ricerca dell’artista non è mai ripetitiva ed esplora tutte le possibilità della linea. A volte dipinge strutture ellittiche, ondulate e flessuose, vicine a Balla e Archipenko, che danno l’idea di nastri e arabeschi dagli andamenti leggeri. Troviamo anche, nei suoi lavori, una “Astrazione 1952″. Spesso però dipinge un’intelaiatura acuminata che dialoga con gli studi sulla percezione ottica, ma da cui si sprigiona soprattutto un’idea di aggressività. Il movimento, che l’artista continua ad indagare, diventa qui un atto invasivo, lacerante. Pur nell’intenzione astratta (anzi, concreta), tenacemente avversa a ogni evocazione della realtà, le sue Strutture suggeriscono allora un mondo di contrasti.

1953 Composizione

In “Composizione 1953″, per esempio, sullo sfondo di una lesena bianca, cunei affilati come lame, come boomerang, si incastrano in una sequenza di storte cornici quadrangolari. Il dinamismo implica dunque l’invasione di nuovi spazi, con un’occupazione che non è affatto pacifica. Dietro l’apparentemente neutra ripetizione di forme, di strutture totalmente lontane dalla realtà, si insinua il ricordo (probabilmente inconsapevole, senz’altro non voluto, eppure presente) della violenza della storia, che la generazione di Chevrier ha visto da vicino.



OLTRE IL M.A.C. DAL PERIODO INFORMALE ALL’ULTIMA STAGIONE

Mentre stringe i rapporti col M.A.C. di Milano, pur senza lasciare Livorno, Chevrier si avvicina anche ad altri movimenti astrattisti: a Roma (nel 1951, dopo aver conosciuto Dorazio e Perilli, partecipa alla mostra “Arte astratta e concreta”, organizzata dall’Age d’Or e dall’Art Club); e a Firenze (stringe amicizia con Berti, Brunetti, Monnini, Nativi e Nuti, esponenti dell’Astrattismo Classico, che aveva incontrato all’Age d’Or, e nel 1952 espone nella Galleria Numero di Fiamma Vigo, lo spazio espositivo del gruppo).

Alla metà degli anni cinquanta, infatti, le strutture delle sue composizioni si allentano, le geometrie concretiste si sfaldano, si intridono di materia, si confondono con lo spazio circostante.

Nella seconda metà del decennio troviamo nelle opere di Chevrier alcuni echi degli astratto-concreti, il gruppo animato da Lionello Venturi nel 1952, e, più in generale, un avvicinamento all’informale europeo. Del 1956 è anche il suo primo viaggio a Parigi, agevolato da Bertini che aveva lasciato Milano e si era trasferito nella capitale francese cinque anni prima. Al di là delle singole frequentazioni (Guido Biasi, Jean Clarence Lambert e altri) e delle singole esperienze (vede una mostra di Soulages, assiste a conferenze di Sartre e Cocteau), il clima espressivo di Parigi, dominato dall’arte di segno e di gesto, lo influenza profondamente. Non a caso dopo il 1956 Chevrier inizia un viaggio dentro la materia (verso la “forma originaria”, come dice il titolo di un suo quadro del 1958) e si ispira vagamente al mondo invisibile delle particelle elementari. E’ uno stacco deciso rispetto all’ortodossia astratta del M.A.C., non tanto per i labili riferimenti naturalistici, ma perché Chevrier sente ora che, oltre il mondo della geometria, esiste il mondo della natura, dell’organico, di ciò che non è teorema ma vita. “Anche se l’arte è per sua natura illusoria, è necessario ancorarla all’unica realtà che non ammette possibilità di mistificazione e che è profondamente legata alla nostra natura, cioè la dimensione biologica” dichiara.[3] La ricerca delle strutture, che aveva condotto con la geometria, ora diventa ricerca dei nuclei originari delle cose. Quello che gli interessa, del resto, è sempre un andare all’origine.

Nel 1952 era nato il Movimento Arte Nucleare, fondato da Baj e Dangelo, ma le affinità dell’artista livornese col nuclearismo sono solo apparenti, perché Chevrier non si muove in una dimensione surreale come i due milanesi, ma in una dimensione organicista. C’è nelle sue opere (a differenza dell’arte nucleare che si riallaccia in forme oniriche alla scissione dell’atomo) un’idea di nascita, di crescita, di evoluzione. Ancora una volta è il movimento ad attrarlo, quel moto che porta la cellula a diventare corpo, massa, organismo.

Intanto nuovi sodalizi si sostituiscono agli antichi. Ora sono Jean Mario Berti ed Elio Marchegiani gli artisti che gli sono più vicini e con cui partecipa tra l’altro, il 18 agosto 1958, a un happening di pittura e musica jazz ai Bagni Pancaldi. Più che l’episodio, sempre citato ma in sé marginale, è interessante il presupposto di quella serata. Il parallelo con la musica jazz che è uno dei dogmi critici dell’informale americano, che è stato sempre avvicinato alla musica afroamericana per la sua “improvvisazione” espressiva. Anche la serata agostana, dunque, è un sintomo della poetica che Chevrier sta maturando. L’artista aspira ora a una pittura che non sia raziocinio, costruzione architettonica, progetto, ma piuttosto immediatezza, impulsività, estro improvviso.

Proprio approfondendo queste direzioni di ricerca, Chevrier negli anni sessanta dipinge un mondo di meteore che attraversano velocemente lo spazio del quadro e sembrano solcare le galassie. Sono forme di vita (o forme di coscienza) di cui non conosciamo la genesi e il destino, ma di cui constatiamo il tempo breve, la corsa concitata, l’apparizione fuggevole. Chevrier ragiona sul rapporto tra la materia e il movimento, tra la forma chiusa e la forma aperta, ma quello che noi vediamo è, come dicono tanti suoi titoli, un Evento: qualcosa che accade, si manifesta per un attimo e poi sparisce.

C’è un accento esistenziale in questo narrare la vita come la scia di una cometa che si dissolve, come un avvenimento che entra nel tempo e poi se ne allontana per approdare a un altrove. Non c’è però disperazione nell’opera di Chevrier: piuttosto un assistere partecipe alle manifestazioni del dinamismo universale.

Alla fine degli anni settanta, nel suo periodo milanese (l’artista si trasferisce nel capoluogo lombardo nel 1974 e vi rimane fino al 2004, l’anno precedente alla sua scomparsa) torna ad apparire nelle sue composizioni un leggero reticolo geometrico, che si disegna sullo sfondo. Poi, negli anni ottanta, le traiettorie lineari si aggregano in forme più volumetriche, in sequenze consecutive di anelli cilindrici che attraversano lo spazio. Solo al volgere del millennio quei corpi rotanti si dissolvono nuovamente in andamenti lineari e conquistano un’estrema, aerea leggerezza.

Sono le ultime opere di Chevrier, coerenti con tutto il suo percorso e tutto il suo pensiero, e ancora una volta legate al movimento di ogni forma, e di ogni forma di vita. Forse, con Eraclito, l’artista avrebbe potuto dire: la realtà del mondo non è che un divenire perenne, senza fine.


[1]U. Boccioni, Il dinamismo futurista e la pittura francese, “Lacerba”, I, n.15, 1 agosto 1913, p.170.

[2]G. Bertini, Ferdinando Chevrier, catalogo della mostra, Milano 1950, ora in Luciano Caramel, M.A.C.: 1948-1952, 1953-1958, catalogo della mostra (Gallarate, Civica galleria d’arte moderna), Milano 1984, p.49

[3]Dichiarazione dell’artista in Ferdinando Chevrier. La pittura 1947-1970, tesi di laurea di Maria Grazia Mambrini, Università Cattolica del Sacro Cuore, relatore Luciano Caramel, 1996-7, p.41. Su Chevrier si veda anche Ferdinando Chevrier. Vivere l’immaginario, catalogo della mostra (Livorno 23 novembre 2002- 2 febbraio 2003), Livorno 2002, con testi di Alberto Veca e Mattia Patti (con bibliografia precedente cui si rimanda).

Elena Pontiggia 2017

da “Ferdinando Chevrier Il Movimento e la Tensione”  Pacini Editore  2017