Mattia Patti

Mattia Patti

DAL NEOCUBISMO ALL”INFORMALE”: I PRIMI DIECI ANNI DELL’ESPERIENZA ARTISTICA DI CHEVRIER

(scarica il pdf Dal neocubismo all’Informale)

Quando, all’inizio del 1945, Livorno cominciò a risvegliarsi dalla lunga notte della guerra, Ferdinando Chevrier non era ancora rientrato nella sua città natale. Dopo quattro anni trascorsi a combattere sul fronte greco – albanese, egli si era tempo­raneamente stabilito a Nettuno, sulla costa laziale. Nel frattempo, la situazione artistica livornese si stava rapidamente mettendo in moto: nel giro di pochi mesi, infatti, erano nati tre centri espositivi (la Galleria d’Arte di via Ricasoli, la Galleria Labronica e il “Fagiano”) e due scuole d’arte (la Scuola del Partito Cristiano Socia­le e quella del Centro Artistico Labronico); la galleria cittadina più prestigiosa, Bottega d’Arte, in attesa del recupero della sua sede storica di via dell’Indipen­denza, aveva trovato una sistemazione provvisoria e aveva iniziato anch’essa a fare mostre. L’esperienza più importante dell’immediato dopoguerra livornese fu comunque quella del “Gruppo Artistico Moderno”; formato nel giugno del 1945 da alcuni giovani pittori che si opponevano all’imperante tradizione macchiaio­la. Alle attività del gruppo parteciparono anche due futuri compagni di strada di Chevrier, Mario Nigro e Mario Ferretti, intenti allora a superare la diffusa manie­ra del “Novecento italiano” attraverso l’introduzione di elementi linguistici tratti dall’ambito espressionista.

Questo soltanto fu il ritardo di Chevrier nei confronti dei giovani pittori concit­tadini; queste, e non altre, le poche esperienze da cui rimase escluso.

Nato nel 1920, Chevrier si era avvicinato alla pittura alla fine del 1933, quando, appena tredicenne, visitò la “Mostra Nazionale d’arte futurista” allestita nelle sale di Bottega d’Arte e presentata in catalogo da Marinetti e Fillia. L’incontro con il futurismo, pure quello di seconda generazione, fece scattare in Chevrier un gran­de interesse per l’arte moderna. Fu così che dopo il rientro a Livorno, avvenuto alla fine del 1945, egli cominciò ad andare spesso a Pisa, ove, presso la libreria anti­quaria Vallerini, poteva consultare i fascicoli della rivista “Lacerba”; che del futuri­smo era stata una delle voci principali. In quello stesso periodo Chevrier iniziò a frequentare con assiduità le gallerie d’arte livornesi, incontrando fra gli altri proprio Nigro e Ferretti. Insieme a loro, all’inizio del 1947_composizione1947 si avvicinò al neocubismo, conosciuto probabilmente grazie alle rare cartoline e riviste specializzate che arrivavano in città. Contemporaneamente, Chevrier cominciò a seguire i corsi di disegno e pittura dal vero tenuti da Voltolino Fontani nella nuova scuola d’arte ”Amedeo Modigliani”. Le prove grafiche di questo periodo, alcune delle quali riconducibili con certezza all’esperienza scolastica, rivelano in maniera chiara la filiazione neocubista del giovane Chevrier. Nell’agosto del 1947 venne allestita una mostra di disegni degli allievi di Fontani: fu questa la prima occasione espositiva di Chevrier, il suo esordio sulla scena artistica livornese, cui seguirono, poco tempo dopo, due partecipazioni a mostre collettive organizzate da Bottega d’Arte, la prima nel marzo, la seconda nell’ottobre del 1948.

Proseguiva frattanto la frequentazione della libreria diretta da Fernando Vallerini: là Chevrier conobbe, insieme a Nigro e Ferretti, i pittori Gianni Bertini e Emilio Tolaini; nelle sale della libreria pisana capitava inoltre anche Franco Russoli, studente universitario e critico d’arte dei quotidiani “La Gazzetta” e “La Nazione”. Per alcuni anni, il gruppo livornese e quello pisano percorsero una strada simile, accomunati dalla medesima ansia di confronto con le più interessanti e aggiornate esperienze artistiche nazionali. Questa situazione subì una svolta decisiva quando Bertini, Chevrier e Nigro, in tempi e modi diversi, abbandonarono il linguaggio neocubista per abbracciare l’astrazione.

1949_Natura_mortaIl passaggio di Chevrier alla pittura astratta fu graduale e chiaramente percepibile: tra il 1948 e il 1949, infatti, i suoi dipinti cominciarono ad accogliere in maniera sempre più marcata elementi geometrici. Triangoli, curve e linee rette, nascosti dapprima sul fondo, dietro l’immagine centrale — fosse essa una figura femminile o una natura morta — cominciarono a salire in superficie, a tendere la scomposizione cubista e a trasformarla, fino a divenire protagonisti assoluti del dipinto. Emblematica, in questo senso, è la Natura morta di proprietà Giraldi, ove tre linee gialle si allontanano dal bordo del tavolo, ridotto a mero pretesto figurativo, e percorrono liberamente lo spazio.

I tre astrattisti, tuttavia, non riuscirono a esporre insieme, anche perché all’inizio del 1949 Bertini si trasferì a Milano. Questo episodio avrebbe avuto di lì a poco una grande importanza anche per Nigro e Chevrier, poiché Bertini entrò presto in contatto con il M.A.C., (Movimento Arte Concreta), che si era costituito nel dicembre del 1948. II M.A.C., al cui interno militavano artisti provenienti dall’a­strattismo storico lombardo degli anni Trenta quali Bruno Munari, Atanasio Sol­dati e Galliano Mazzon, insieme ad altri giovani pittori quali Gianni Monnet, Augusto Garau e Gillo Dorfles, divenne rapidamente il più ampio e organizzato raggruppamento astratto italiano.

Nel corso del 1949 anche Nigro, per suo conto, aderì al M.A.C., consolidando in tal modo la presenza livornese e pisana. Tra il mese di novembre e il mese di dicembre di quello stesso anno Bertini e Nigro tennero due mostre personali nei locali della libreria Salto di Milano, tradizionale spazio espositivo del movimento». È in questo periodo che, grazie all’intervento di Bertini, anche Chevrier cominciò a partecipare alle iniziative del M.A.C. Finalmente, nel febbraio del 1950, i tre compagni riuscirono ad organizzare una mostra collettiva: le loro opere, esposte nella familiare libreria Vallerini di Pisa, furono presentate in catalogo da Gillo Dorfles, che del M.A.C. era la voce critica più attenta ed esercitata.

Dorfles raccolse i tre artisti sotto la medesima bandiera dell’arte concreta, di quell’arte cioè che rimanendo lontana non solo «da ogni ricordo naturalistico, ma anche da ogni suggestione surreale o metafisica», si affida «al solo gusto della forma e del colore, cercando così di creare alcunché di veramente nuovo, di veramente concreto: un ritmo, un accordo, fissato col colore sulla tela».

1948_Il_bevitoreLa mostra pisana segnò per Ferdinando Chevrier l’inizio di una lunga serie di esposizioni: sempre nel febbraio del 1950 partecipò alle “Olimpiadi culturali della gioventù”; ove fu selezionato per la rassegna finale che si tenne nel mese di mag­gio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; all’inizio di ottobre espose un vecchio dipinto neocubista alla “Mostra d’Arte del Festival dell’Unità” di Livorno, vincendo un premio in denaro; a novembre, infine, tornò a Pisa, que­sta volta all’Art Club, con altri sette pittori livornesi tra cui figurava anche Mario Nigro.

Proprio in occasione di quest’ultima mostra, Franco Russoli, a proposito delle opere di Chevrier, parlò di «un sospetto di dinamismo futurista», sottolineando lucidamente l’aspetto più caratteristico dell’astrattismo geometrico del pittore livornese. Memore forse dei primi studi compiuti sui testi de “Lacerba”; o, addirittura, della mostra futurista visitata nel 1933, Chevrier aveva, infatti, recuperato l’elemento dinamico presente nella pittura futurista, segnatamente in quella di Giacomo Balla. Le sue composizioni sono caratterizzate dall’uso costante di colori brillanti e dalla rapida corsa di curve e diagonali, che scattando da una parte all’altra del dipinto tracciano, definiscono lo spazio stesso dell’immagine. Frequenti, in maniera talora ossessiva, le linee scandiscono la superficie in distinti campi cromatici riuscendo ad esprimere quel «ritmo» o «accordo, fissato col colore sulla tela» di cui aveva parlato Dorfles.

Ormai ufficialmente legato al M.A.C., Chevrier all’inizio del 1951 espose alla “Mostra d’Arte Astratta e Concreta” che si tenne alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Questa mostra fu un’ampia e capillare ricognizione nel campo delle ricerche astratte italiane del secondo dopoguerra, e servì a mettere a confronto in maniera esaustiva i risultati del M.A.C. con quelli del gruppo romano di “Forma” e degli altri raggruppamenti astratti che si erano costituiti in varie città d’Italia.

Dopo questa importante rassegna, Chevrier tenne finalmente una mostra personale alla libreria Salto di Milano. In catalogo figurava un testo di Gianni Bertini, che nel presentare l’amico puntò l’attenzione sul valore della sua ricerca, soprattutto in riferimento al contesto provinciale in cui Chevrier per anni aveva operato. Scriveva infatti Bertini: «Formatosi al di fuori di cenacoli d’avanguardia — anzi sorto semmai in opposizione ai deteriori deformismi passatisti — Chevrier è giunto alla concezione di un’arte astratta prima, concreta poi, per quel senso di urgenza che si era andata col tempo maturando in lui».

1958_Forma_originariaSuccessivamente, Chevrier partecipò ad alcune piccole mostre livornesi, al III Premio “Golfo della Spezia” — ove ottenne tra l’altro una segnalazione da parte della giuria — e a due collettive del M.A.C., la prima allestita presso la galleria Bompiani di Milano, la seconda, invece, organizzata dal nucleo torinese del movimento a Torre Pellice. Nel dicembre del 1951, unico tra gli artisti livornesi,inviò due opere allaVI Quadriennale d’Arte” di Roma. Infine, allestì una mostra personale nella galleria Numero di Firenze, diretta dalla pittrice Fiamma Vigo. L’intensa attività di questo periodo proseguì poi a Livorno, ove Chevrier era intenzionato a mostrare il suo lavoro nella forma più completa.

Fu così che nel marzo del 1952 tenne un’ampia e importante personale nelle sale della nuova galleria che Bruno Giraldi aveva aperto in via Grande. Qui Chevrier espose una ventina di dipinti, riferibili ai primi sei anni della sua attività; al fianco delle nuove opere concretiste erano appese le scomposizioni neocubiste del 1947-1949, in maniera tale da rendere chiare agli occhi del pubblico le diverse tappe del suo percorso. La mostra ebbe un buon riscontro da parte della critica, anche di quella meno avveduta; il recensore del settimanale “L’Indicatore”; ad esempio, pur affermando «che non sarebbe male se Chevrier si dedicasse maggiormente alla pittura figurativa», ammetteva che nelle sue composizioni astratte vi fosse «un geometrismo dinamico sapientemente messo in risalto dal colore». Particolarmente positiva fu la recensione di Guido Favati, pubblicata sulle pagine de “Il Tirreno”, Favati sottolineò come quella di Chevrier fosse una «mostra tesa e intensa», ove erano esposte «tutte opere di prima qualità». Dopo aver descritto il passaggio dal neocubismo all’astrazione, Favati istituiva giustamente un rapporto tra la pittura concreta di Chevrier e la musica: i dipinti dell’’artista livornese, infatti, tendevano a «ricostruire, attraverso linee geometriche purissime, un ritmo architettonico, che si placa solo nella realizzazione di un musicale equilibrio. Pittura ritmica, dunque, la sua» — proseguiva Favati — «di un ritmo che effettivamente crea un concreto equilibrio tra distanze ricorrenti, che s’intersecano e s’attendono, sicché non è chi non avverta quale valore suggestivo e sensoriale abbia il rincontrare la cadenza d’una linea attesa dopo uno spazio di vibrante tensione: come il riudire una nota necessaria dopo una pausa intensa, che ha permesso alla sua rispondente d’ingigantirsi nella memoria auditiva». L’interesse per la musica che Chevrier dimostrò sul finire degli anni Cinquanta, quando organizzò alcune serate di pittura estemporanea durante concerti jazz, avrebbe dato pienamente ragione a Guido Favati,  una delle voci critiche più attente del panorama livornese di allora.

Dopo la personale da Giraldi, Chevrier continuò ad esporre con frequenza: tra il 1952 e il 1954 partecipò infatti a numerose mostre collettive, alcune delle quali organizzate dalla Galleria Numero di Firenze, con cui aveva instaurato uno stabile rapporto di collaborazione.

Si era sciolto, intanto, il sodalizio con Bertini e Nigro: Bertini alla fine del 1951 si era trasferito a Parigi; Nigro, dopo aver ottenu­to alcuni importanti riconoscimenti, aveva intrapreso una strada tutta persona­le, che presto lo avrebbe portato fuori dal M.A.C. D’altro canto anche il movi­mento milanese mostrava ormai alcuni preoccupanti segnali di crisi, dovuti in gran parte all’impossibilità di coordinare in maniera efficace le sezioni dislocate nelle diverse città italiane.

1957_Luce_OmbraChevrier, al pari di altri artisti che avevano militato nelle fila del M.A.C., capì che non era più possibile proseguire lungo la strada dell’arte concreta, e così, tra il ‘55 e il ‘56, sottopose la sua pittura ad un processo di profonda trasformazione. Le diagonali che avevano fino ad allora abitato i suoi dipinti ruppero improvvisa­mente l’esatto schema geometrico, e, allargandosi e acquisendo un nuovo spes­sore materico, invasero lo spazio fino a formare un reticolato di linee spesse, uno sbarramento di colore per lo più nero. In un secondo momento, queste reti tese da una parte all’altra del dipinto presero ad aggrumarsi al centro dell’immagine, a formare una vera e propria figura costruita da una fitta stratificazione di segni neri. Chevrier aprì così una nuova fase della sua pittura, da molti definita, con qualche approssimazione, “informale” In realtà, della poetica informale Chevrier non assume che «una esplicita attenzione al divenire fisico della materia», come ha osservato giustamente Luciano Caramel.

Rotti ormai definitivamente i rapporti con il M.A.C., Chevrier espose i suoi nuovi dipinti soprattutto a Livorno. In questo, egli poté giovarsi del clima di generale risveglio che intorno alla metà degli anni Cinquanta aveva caratterizzato la situa­zione artistica cittadina. Le mostre della Casa della Cultura registravano costan­temente un buon successo di pubblico; nel 1955 fu istituito il premio nazionale di pittura “Amedeo Modigliani — Città di Livorno”; infine, nel 1957, all’attività delle gallerie private si aggiunse quella del centro d’arte e cultura “Il Grattacielo”. Proprio frequentando le sale de “II Grattacielo”; Chevrier si avvicinò a Jean Mario Berti, prima, e a Elio Marchegiani, poi. Assieme a questi due pittori, entrambi volti a un’astrazione in qualche modo tangente alla poetica informale, Chevrier dette vita ad un nuovo raggruppamento, battezzato dalla critica “I tre dell’astrattismo”. Con l’aprirsi di questa esperienza, si chiuse di fatto il primo decennio d’attività artistica di Chevrier, un decennio, per lui, denso d’avvenimenti e di significative partecipazioni al processo di rinnovamento dell’arte italiana. Pur rimanendo in una realtà provinciale quale era quella livornese, Chevrier, mosso da una grande curiosità intellettuale, seppe aggiornarsi ed entrare in contatto con le più avan­zate ricerche artistiche nazionali.

Mattia Patti

da Ferdinando Chevrier “Vivere l’immaginario”, Livorno 2002