Mostra Antologica del Maestro Ferdinando Chevrier “Il movimento e la tensione” alla Fondazione Livorno – Arte e Cultura

Si inaugura il giorno venerdì 6 ottobre, alle ore 17,00 presso i locali di Fondazione Livorno, Piazza Grande 23, la mostra

 

Manifesto mostra Chevrier

Ferdinando Chevrier

Il movimento e la tensione




Manifesto della mostra


La mostra è promossa e organizzata da Fondazione Livorno Arte e Cultura, l’ente strumentale costituito da Fondazione Livorno per la promozione di iniziative artistiche e culturali e per la valorizzazione della collezione d’arte.

La mostra, che comprende oltre 100 opere, è la prima grande antologica postuma dell’artista livornese, a dodici anni dalla scomparsa. Il percorso espositivo ripercorre tutta la sua ricerca: inizia dalle opere giovanili figurative e neocubiste; prosegue poi con le opere astratte dei primi anni cinquanta, quando Chevrier aderisce al M.A.C., il “Movimento Arte Concretache nasce a Milano nel 1948, fondato da Soldati, Munari, Monnet e Dorfles. La mostra documenta inoltre il periodo informale, ispirato al mondo organico e cellulare (“E’ necessario ancorare l’arte all’unica realtà che non ammette mistificazione, cioè la dimensione biologica” diceva l’artista) e giunge fino agli ultimi decenni, quando Chevrier crea una volumetria rotante che sembra voler uscire dal quadro andando verso l’infinito. Il movimento delle forme è la caratteristica dominante di tutto il suo lavoro.


FERDINANDO CHEVRIER

“IL MOVIMENTO E LA TENSIONE”

Se si osservano le opere di Chevrier nell’immediato dopoguerra, soprattutto le figure e le nature morte eseguite tra il 1946 e il 1949, subito prima dell’adesione al M.A.C., non è difficile avvertire quel senso del dinamismo cui abbiamo accennato e che è la sua più intensa caratteristica espressiva. Certo, è un dinamismo sottile, non esibito, affidato soprattutto all’insistenza delle diagonali.


1947_Natura_morta


In Natura morta, 1947, per esempio, la fruttiera è inaspettatamente obliqua. Già l’espressionismo, a cominciare da Van Gogh, aveva dipinto nature morte dai piani pericolanti,ma Chevrier non ha in mente di costruire un mondo franante. La bottiglia, il vaso, la mela sono solidi e fermi, il tavolino non ha nessuna intenzione di crollare, la stessa fruttiera è saldamente ancorata al piano d’appoggio. Eppure la linea obliqua governa tutta la composizione: anche lo sgabello poggia su gambe diagonali, e triangolari sono – innaturalmente – le ombre.



1949_Natura_morta


Analogamente le scomposizioni neocubiste, a cui Chevrier approda intorno al 1949, si impostano in prevalenza su cunei, triangoli, tagli sghembi e trasversali. In Natura morta, dello stesso 1949, gli oggetti sono quasi irriconoscibili: il quadro si articola in una serie di linee oblique che insidiano la placida orizzontalità della composizione e trasformano gli elementi potenzialmente statici in una inquieta trama geometrica.



Da dove gli derivava quell’amore per il dinamismo e, appunto, per le direttrici diagonali della composizione? In gran parte, lo abbiamo detto, dal Futurismo che aveva posto il “movimento” al centro della propria poetica. L’artista livornese aveva visto nel 1933 (a solo tredici anni) la “Mostra Nazionale d’Arte Futurista”, con opere di Fillia, Dottori, Prampolini, Tato, Osvaldo Peruzzi. Ma non solo. Anche il clima postmacchiaiolo, che allora dominava ancora l’ambiente artistico cittadino, poteva offrirgli qualche suggestione.

Al di là degli insegnamenti di Renucci, comunque, Chevrier torna a meditare su Boccioni e compagni quando, nel dopoguerra, consulta avidamente le pagine di “Lacerba”, che trova alla Libreria Vallerini di Pisa. Il suo non era un interesse scontato. Il futurismo era ancora misconosciuto, non solo – come ci si potrebbe aspettare – dai critici tradizionalisti, ma anche da quelli d’avanguardia, che lo accusavano di “ristrettezza ideologica” e di “cattivo gusto” cromatico oltre che, si intende, di fascismo. Chevrier invece aveva capito che Boccioni aveva “cambiato rotta alla placida e modesta crociera dell’arte italiana di allora”, per dirla con Sironi.

Carlo Carra Complementarismo delle forme di una figura nuda

Archipenko


Se guardiamo le pagine di “Lacerba”, ci imbattiamo in opere come Dinamica di un ciclistadi Boccioni, Complementarismodelle forme di una figura nuda di Carrà o i disegni di Archipenko, impostati tutti su un intreccio di ellissi spezzate e di diagonali, che hanno qualche punto di contatto con esiti come Capocoda verticale di Chevrier (1949) e altre sue opere del periodo.



Ancora su “Lacerba”, poi, Boccioni scriveva che il dinamismo è la “sola via futura e definitiva dell’arte”: un’affermazione intransigente, radicale, che avrebbe potuto impressionare il giovane livornese.

Costruzione 1949 Mario Nigro 1949_Capocoda_Verticale

Intanto, a partire dal 1947, l’artista si avvicina al neocubismo e, alla fine dello stesso anno, conosce Gianni Bertini e Mario Nigro, anch’essi interessati alle scomposizioni e alle dure geometrie della pittura picassiana. La ricerca di Nigro, in particolare, ha una consonanza col lavoro di Chevrier, come si vede per esempio in Costruzione del primo e nel già citato Capocoda verticale del secondo, entrambi del 1949. Sempre nel 1949 Nigro e Bertini, che ormai si è trasferito a Milano, hanno una personale alla Libreria Salto, i locali in via Santo Spirito 14, nel cuore della città, che sono il centro espositivo del M.A.C.. Anche per Chevrier sta per iniziare l’avventura del concretismo.



GLI ANNI DEL M.A.C. (1950-1955)

Il M.A.C. nasce a Milano nel 1948, fondato da Soldati, Munari, Monnet e Dorfles. Il nome era l’abbreviazione di “Movimento Arte Concreta”, dove l’aggettivo era un sinonimo, già coniato da Kandinsky, di astrattismo. Indicava un’arte non imitativa, volta non a riprodurre la realtà ma a concretizzare, appunto, una forma inventata dall’artista.

Oggi, in tempi in cui tutte le ideologie sono crollate, anche quelle artistiche (e in cui si pensa, a ragione, che ogni tendenza e ogni linguaggio possano aver valore, purché creino un’opera d’arte), è difficile immedesimarsi nel clima di quegli anni in cui l’astrattismo era una fede, una bandiera, un assoluto. La contrapposizione fra astrazione e figurazione – in particolare fra astrazione e realismo sociale – era totale.  Eppure, propiziati forse da quel contrasto e da quella fede dogmatica, nacquero in quel periodo (non solo nel M.A.C.) alcuni degli esiti più significativi dell’astrattismo geometrico in Italia.

1951_Composizione

1955_1999_S.T._Chevrier aderisce al concretismo nel 1950, sull’esempio di Bertini e Nigro. Già in febbraio, quando espone con loro alla Sala delle Stagioni a Pisa, la presentazione di Gillo Dorfles contrappone al neocubismo, che manteneva ancora tracce dell’oggetto, il concretismo, a cui evidentemente i tre artisti erano approdati e che espelleva dall’opera qualsiasi riferimento alla realtà.

Il consenso di Dorfles non è senza conseguenze. Qualche mese dopo, in novembre, il M.A.C. invita Chevrier a esporre; anche se per ragioni contingenti la sua mostra alla Libreria Salto siaprirà solo nel maggio 1951. A presentarla è Gianni Bertini che sottolinea la “realtà interiore” espressa da Chevrier e la “struttura” della sua pittura.

In effetti dal 1951 al 1954 l’artista imposta la composizione soprattutto su un intreccio di linee dall’andamento prevalentemente seriale, dove la singola forma si ripete potenzialmente all’infinito: una trama di geometrie che sembrano rappresentare lo scheletro, l’ossatura, l’armatura architettonica delle cose.


1952_Astrazione


La ricerca dell’artista non è mai ripetitiva ed esplora tutte le possibilità della linea. A volte dipinge strutture ellittiche, ondulate e flessuose, vicine a Balla e Archipenko, che danno l’idea di nastri e arabeschi dagli andamenti leggeri. Troviamo anche, nei suoi lavori, una “Astrazione 1952″. Spesso però dipinge un’intelaiatura acuminata che dialoga con gli studi sulla percezione ottica, ma da cui si sprigiona soprattutto un’idea di aggressività.



1953_Composizione


Il movimento, che l’artista continua ad indagare, diventa qui un atto invasivo, lacerante. Pur nell’intenzione astratta (anzi, concreta), tenacemente avversa a ogni evocazione della realtà, le sue Strutture suggeriscono allora un mondo di contrasti. In “Composizione 1953“, per esempio, sullo sfondo di una lesena bianca, cunei affilati come lame, come boomerang, si incastrano in una sequenza di storte cornici quadrangolari. Il dinamismo implica dunque l’invasione di nuovi spazi, con un’occupazione che non è affatto pacifica. Dietro l’apparentemente neutra ripetizione di forme, di strutture totalmente lontane dalla realtà, si insinua il ricordo (probabilmente inconsapevole, senz’altro non voluto, eppure presente) della violenza della storia, che la generazione di Chevrier ha visto da vicino.


OLTRE IL M.A.C. DAL PERIODO INFORMALE ALL’ULTIMA STAGIONE

Mentre stringe i rapporti col M.A.C. di Milano, pur senza lasciare Livorno, Chevrier si avvicina anche ad altri movimenti astrattisti: a Roma (nel 1951, dopo aver conosciuto Dorazio e Perilli, partecipa alla mostra “Arte astratta e concreta”, organizzata dall’Age d’Or e dall’Art Club); e a Firenze (stringe amicizia con Berti, Brunetti, Monnini, Nativi e Nuti, esponenti dell’Astrattismo Classico, che aveva incontrato all’Age d’Or, e nel 1952 espone nella Galleria Numero di Fiamma Vigo, lo spazio espositivo del gruppo).

Alla metà degli anni cinquanta, infatti, le strutture delle sue composizioni si allentano, le geometrie concretiste si sfaldano, si intridono di materia, si confondono con lo spazio circostante.

1958_Forma_originariaNella seconda metà del decennio troviamo nelle opere di Chevrier alcuni echi degli astratto-concreti, il gruppo animato da Lionello Venturi nel 1952, e, più in generale, un avvicinamento all’informale europeo. Del 1956 è anche il suo primo viaggio a Parigi, agevolato da Bertini che aveva lasciato Milano e si era trasferito nella capitale francese cinque anni prima. Al di là delle singole frequentazioni (Guido Biasi, Jean Clarence Lambert e altri) e delle singole esperienze (vede una mostra di Soulages, assiste a conferenze di Sartre e Cocteau), il clima espressivo di Parigi, dominato dall’arte di segno e di gesto, lo influenza profondamente. Non a caso dopo il 1956 Chevrier inizia un viaggio dentro la materia (verso la “Forma originaria”, come dice il titolo di un suo quadro del 1958) e si ispira vagamente al mondo invisibile delle particelle elementari. E’ uno stacco deciso rispetto all’ortodossia astratta del M.A.C., non tanto per i labili riferimenti naturalistici, ma perché Chevrier sente ora che, oltre il mondo della geometria, esiste il mondo della natura, dell’organico, di ciò che non è teorema ma vita. “Anche se l’arte è per sua natura illusoria, è necessario ancorarla all’unica realtà che non ammette possibilità di mistificazione e che è profondamente legata alla nostra natura, cioè la dimensione biologica” dichiara. La ricerca delle strutture, che aveva condotto con la geometria, ora diventa ricerca dei nuclei originari delle cose. Quello che gli interessa, del resto, è sempre un andare all’origine.

Nel 1952 era nato il Movimento Arte Nucleare, fondato da Baj e Dangelo, ma le affinità dell’artista livornese col nuclearismo sono solo apparenti, perché Chevrier non si muove in una dimensione surreale come i due milanesi, ma in una dimensione organicista. C’è nelle sue opere (a differenza dell’arte nucleare che si riallaccia in forme oniriche alla scissione dell’atomo) un’idea di nascita, di crescita, di evoluzione. Ancora una volta è il movimento ad attrarlo, quel moto che porta la cellula a diventare corpo, massa, organismo.

Chevrier Berti Marchegiani1958 Bagni Pancaldi Improvvisazione JazzIntanto nuovi sodalizi si sostituiscono agli antichi. Ora sono Jean Mario Berti ed Elio Marchegiani gli artisti che gli sono più vicini e con cui partecipa tra l’altro, il 18 agosto 1958, a un happening di pittura e musica jazz ai Bagni Pancaldi. Più che l’episodio, sempre citato ma in sé marginale, è interessante il presupposto di quella serata. Il parallelo con la musica jazz che è uno dei dogmi critici dell’informale americano, che è stato sempre avvicinato alla musica afroamericana per la sua “improvvisazione” espressiva. Anche la serata agostana, dunque, è un sintomo della poetica che Chevrier sta maturando. L’artista aspira ora a una pittura che non sia raziocinio, costruzione architettonica, progetto, ma piuttosto immediatezza, impulsività, estro improvviso.

1962_EventoProprio approfondendo queste direzioni di ricerca, Chevrier negli anni sessanta dipinge un mondo di meteore che attraversano velocemente lo spazio del quadro e sembrano solcare le galassie. Sono forme di vita (o forme di coscienza) di cui non conosciamo la genesi e il destino, ma di cui constatiamo il tempo breve, la corsa concitata, l’apparizione fuggevole. Chevrier ragiona sul rapporto tra la materia e il movimento, tra la forma chiusa e la forma aperta, ma quello che noi vediamo è, come dicono tanti suoi titoli, un “Evento“: qualcosa che accade, si manifesta per un attimo e poi sparisce.

C’è un accento esistenziale in questo narrare la vita come la scia di una cometa che si dissolve, come un avvenimento che entra nel tempo e poi se ne allontana per approdare a un altrove. Non c’è però disperazione nell’opera di Chevrier: piuttosto un assistere partecipe alle manifestazioni del dinamismo universale.


1977_Contrasto_apparente

1976_Passaggio_Alla fine degli anni settanta, nel suo periodo milanese (l’artista si trasferisce nel capoluogo lombardo nel 1974 e vi rimane fino al 2004, l’anno precedente alla sua scomparsa) torna ad apparire nelle sue composizioni un leggero reticolo geometrico, che si disegna sullo sfondo.




1982_Un attimo primaPoi, negli anni ottanta, le traiettorie lineari si aggregano in forme più volumetriche, in sequenze consecutive di anelli cilindrici che attraversano lo spazio. Solo al volgere del millennio quei corpi rotanti si dissolvono nuovamente in andamenti lineari e conquistano un’estrema, aerea leggerezza. Sono le ultime opere di Chevrier, coerenti con tutto il suo percorso e tutto il suo pensiero, e ancora una volta legate al movimento di ogni forma, e di ogni forma di vita. Forse, con Eraclito, l’artista avrebbe potuto dire:



la realtà del mondo non è che un divenire perenne, senza fine.

Tratto dal testo di Elena Pontiggia, 2017



1995_E'_strano1998_Nomadi attraversamenti